"Da quanto tempo non legge un libro di storia?" è una domanda che suona più come un'offesa che una critica. Un po' come dire: "Ma tu sai leggere?" E questa è la domanda, provocatoria, assolutamente equivoca, che Ernesto Galli della Loggia ha rivolto nel suo editoriale sul Corriere della Sera ad Alberto Angela. Storico il primo, ordinario di Storia Contemporanea, paleontologo e soprattutto divulgatore di fama nazionale il secondo.
Stando all'interpretazione dei social, la polemica che Galli della Loggia rivolge ad Angela è dettata puramente "dall'invidia", l'ennesima critica di un "professorone" (cit.) che in sostanza non sa staccarsi dal suo mondo accademico e attacca sempre per invidia un'icona nazionale come Alberto Angela, figlio di un altro ancor più grande monumento nazionale come Piero Angela, che la loro fama rende semplicemente intoccabili.
E per un certo verso, ha ragione chi dice che agli accademici (i "professoroni") non sanno (o non vogliono) abbandonare la propria autoreferenzialità, scendere dal piedistallo di sapienza e saccenza su cui si arroccano. Per chi non ha accesso ai loro illegibili, soporiferi libri di storia, pieni di date, battaglie, re, papi e chi più ne ha, più ne metta, rimangono come ancora di salvezza (per fortuna) i Re della divulgazione scientifica.
Ma quanto c'è di vero in questo e, soprattutto, la ragione sta solo da una delle due parti? Come sempre, la questione è più complessa e non c'è mai una sola verità.
Partiamo dalle parole di Angela, presentate per la sua collana di libri offerta con la Repubblica:
Quando apriamo un libro di storia troviamo date, re, battaglie, imperi e poi basta. Sfugge completamente la realtà e cioè che la storia è fatta di piccole storie. In questa serie , ogni epoca la vedremo attraverso una famiglia: ogni volume racconta di un padre, una madre, di figli, zie, ed esplora la loro vita quotidiana, i cibi, le strade, i commerci, i modi di vestire, come un padre si rivolgeva ai figli, come avveniva un matrimonio. Non è quello che tutti vorremmo sapere?
Che cosa c'è di vero in queste parole? Personalmente, non ho contatti diretti con i libri scolastici da 6 anni, avendo finito il Liceo nel 2013, perciò a disposizione ho solo i miei vecchi testi, che non credo siano cambiati molto come impostazione. Se prendo in mano il libro di storia del 3° anno, ad esempio, e do una rapida sfogliata, non solo mi rendo conto che Angela non sbaglia, ma che in mezzo a quel mucchio di informazioni e nozioni sbattute in faccia alla Me quindicenne ci sono così tanti errori e approssimazioni che da storica mi fanno semplicemente rabbrividire. Faccio un semplice esempio con la pagina che ho qui davanti (il libro è Cataldo-Luperini, Di fronte alla storia vol. 1, 1100-1648), riguardo la cosidetta e temutissima piramide feudale:
Una piramide senza cambiamenti di ruolo.
La struttura della società feudale ha la forma di una piramide. Al vertice stanno le massime autorità politiche e religiose: l'imperatore e il papa. Più in basso ci sono i grandi signori, e poi i signori di rango inferiore, che insieme formano la nobiltà. [...] Più in basso stanno gli uomini liberi: piccoli funzionari del signore, coloni in affitto suo suoi terreni, artigiani. Al fondo i servi della gleba, manodopera contadina in stato di schiavitù, legata alla terra ("gleba") e cedibile con essa.
La struttura sociale non consente movimenti interni: è rigida al punto da essere concepita come di origine divina. Gli uomini sono divisi in tre ordini: gli oratores (cioè 'coloro che pregano', i religiosi), i bellatores (i 'soldati') e i laboratores ('lavoratori'), rigidamente definiti e distinti nei loro ruoli sociali.
La piramide feudale è un concetto superato almeno dagli anni '80. E no, la teoria dei tre ordini è sempre stata solo e soltanto una teoria, appunto. Una teoria creata al principio del XI secolo, quando stavano avvenendo rivolgimenti sociali e politici in tutta Europa, come una specie di ancora di salvezza teorica a cui ci si sarebbe dovuti appigliare , secondo una visione insolitamente rigida (sì, esatto, insolitamente).
Strafalcioni a parte, qualcuno perdonabile per la vaghezza dell'argomento affrontato, qualcuno non perdonabile, tutto il resto del libro è una cascata ininterrotta di battaglie, nomi e date, che sì seguono in filo cronologico e quindi sensato, ma difficili da memorizzare e incapaci per lo più di suscitare interesse. Qualche volta la narrazione è intervallata da piccoli focus di cultura generale. Le microstorie. Ed ecco che la cultura materiale viene tirata in mezzo a questo marasma di informazioni, cercando di ricreare agli occhi dei ragazzi come poteva essere la vita durante la Guerra dei Trent'anni, o cosa sono i Polder olandesi: ma fidatevi, dopo cinque minuti ci si è dimenticati già sia di cosa sia la Guerra dei Trent'anni, sia che cosa mangiavano i contadini tedeschi durante la suddetta guerra.
Un micropezzetto di Microstoria schiacciata sotto il peso della Macrostoria, quindi. La storia reale, la storia vera delle persone contro la storia dei re che facevano la guerra mandando a morire proprio quelle persone di cui è fatta la Storia. L'idea di opporre queste due visioni è vecchia e non può e non deve esistere.
Nascondere che per lungo tempo la storia è stata soltanto il racconto degli avvenimenti politici e militari è inutile. Fino agli inizi del 1900 si era sempre fatta storia in questo modo, e a questa narrazione non sono venuti meno nè gli intellettuali Illuministi nè i Positivisti. Altre analisi che esulavano dalla storia degli eventi appartenevano ad esempio alla Sociologia. Un timido segnale, rimasto perlopiù un'eccezione, era stata fatta da Leopold von Ranke (1795-1886), studioso tedesco che cercò di inserire nella sua Storia della Riforma in Germania anche storia sociale, storia letteraria, storia scientifica. In poche parole, riuscì ad amalgamare quella che oggi è chiamata "microstoria" insieme alla "macrostoria", ma Ranke era un pionere e come tale non venne compreso. Occorreva aspettare il nuovo secolo perchè questa idea venisse ripresa.
Les Annales furono una rivoluzione storiografica a tutti gli effetti. La loro impostazione e i loro autori possono piacere o non piacere, ma va loro riconosciuto il merito di aver portato (faticosamente) a livello accademico aspetti della storia fino ad allora ignorati o visti più come "curiosità". Tra questi, la cultura materiale.
L'archeologia e la paleografia hanno fatto il resto del lavoro. Oggi c'è ancora chi scambia l'archeologia per storia dell'arte, come se il Gran Tour Europeo del 1700 non sia mai stato superato, ma questa è un'altra questione. E l'archeologia oggi è entrata a pieno titolo negli studi accademici, gli storici ne fanno largo uso (nonostante lo stereotipo dello storico snob che bullizza l'archeologo con la cazzuola in mano), e cosa c'è di più materiale, di più vivo di un reperto? Oggi possiamo sapere (o presumere di sapere con una certa sicurezza) come vivevano le famiglie rurali dell'Antica Roma o i cittadini di Londra nel 1400 toccando con mano le loro scarpe rinvenute nel fango o i piatti in cui mangiavano ridotti a cocci.
E cosa c'è di più materiale, di più vivo, di un diploma firmato di sua mano da re Giovanni d'Inghilterra nel 1215 (la Magna charta libertatum) o della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789? Un tempo si diceva che la Macrostoria è più importante della Microstoria, oggi che è la Microstoria a dover essere riconosciuta come l'unica vera storia. Non può semplicemente essere che tutta la storia è importante?
È inutile e pure dannoso far entrare in conflitto due aspetti così completari. Senza uno, non esisterebbe l'altro, sono due facce dello stesso fenomeno che può essere visto sotto prospettive diverse, senza però che questo debba creare una superiorità dell'uno dell'altro.
Lo stesso problema si pone tra divulgazione e studio accademico. È inutile e dannoso contrapporre un modo di presentare l'uno superiore o inferiore all'altro, intanto perchè è chiaro che non tutti hanno fatto o possono fare della storia la propria passione o perfino il proprio lavoro, e tuttavia provano un sincero interesse verso questo argomento così bistrattato, beceramente manipolato e insegnato male.
In secondo luogo, è importante stimolare alla conoscenza, anche generale ma corretta, il grande pubblico. Si fa tanto vanto di essere il paese della cultura (come se l'avessimo solo noi, ma va bene), ma è un dato di fatto della Cultura non se ne fa un'attrazione, non tanto per i forestieri quanto per gli stessi cittadini. La Cultura è prodotta dalla Storia e la Storia è prodotta dalla Cultura, il fluire del tempo, per gli uomini, è mosso da questi motori.
Dove sta, quindi, il vero punto? Da che parte stanno il torto e la ragione? Da entrambe le parti. Il torto sta in quel mondo accademico che purtroppo ancora oggi si arrocca sulle sue posizioni di superiorità guardando alla cultura generale e alla divulgazione come un male, qualcosa che gli sottrae l'esclusivo prestigio; quel mondo di specialisti che scrive i libri di storia che dovrebbero non insegnare, ma appassionare, suscitare un minimo di curiosità nelle giovani generazioni.
Ma il torto sta anche in quella divulgazione manca di fondamenta, di credibilità, di inattendibilità, che fa della propria ignoranza e del proprio pressapochismo un pilastro e addirittura accusa gli specialisti.
Occorre individuare un compromesso. La semplicità della comunicazione, non la semplificazione, con l'esattezza di quel che si comunica. L'accuratezza della studio accademico con la leggerezza della divulgazione. La cultura materiale con la vita politica e sociale di un'èra.
In poche parole: solo Storia.
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